“Gli esseri umani amano ‘avere’, ma anche (e molto) ‘dare’”

Speciale Giornata mondiale dei Poveri 2024

Siamo abituati a considerare le disuguaglianze guardando innanzitutto alle dimensioni del portafoglio, alle disparità di reddito o di patrimonio, a scandalizzarci – giustamente! – per quell’1% di super-ricchi che hanno in tasca quanto il restante 99% della popolazione mondiale.
Ma è la punta dell’iceberg. O, se vogliamo, solo la fine della storia. Perché la disuguaglianza nasce prima: molto prima.
Nasce prima ancora di andare a scuola, e cresce nelle opportunità che sfuggono, come una margherita che perde uno dopo l’altro i suoi petali. Si consolida poi nella difficoltà a trovare un lavoro stabile, si agita dentro un ascensore sociale bloccato e diventa drammatica quando uccide la speranza di riuscire a costruire una famiglia, un progetto di vita. Si fa angosciante allorché impedisce di immaginare il futuro e alla fine rischia di trasformarsi in autentica “rabbia sociale”. Ritenere pertanto, come pensano alcuni, che il sistema economico abbia bisogno di disuguaglianze anche enormi e che non possa esistere sviluppo senza di esse è una gigantesca sciocchezza. È vero il contrario: le diseguaglianze crescenti alimentano scontento, populismi e minano alle basi le democrazie. Il premio Nobel 2024 per l’Economia è stato assegnato a Daron Acemoglu, Simon Johnson e James A. Robinson proprio per gli studi che lo confermano: “Ridurre le grandi differenze di reddito tra i Paesi – la motivazione del riconoscimento – è una delle sfide più grandi del nostro tempo. I vincitori hanno dimostrato l’importanza delle istituzioni sociali per raggiungere questo obiettivo”.
Da qualche decennio, in ogni caso, abbiamo imparato che la povertà è una carenza di capitali che si manifesta in una carenza di flussi (reddito): si è poveri perché non si hanno capitali educativi, sanitari, relazionali, comunitari, sociali. E si è inoltre poveri – o ci si sente poveri – anche per una mancanza di riconoscimento. Come nota Carlo Invernizzi-Accetti (Vent’anni di rabbia), nonostante livelli di benessere materiale e di libertà individuale per molti versi senza precedenti, le società odierne non riescono a offrire un senso adeguato di dignità a varie categorie di soggetti, uniti da un comune sentimento di umiliazione o declassamento.
Nel saggio “Aporofobia. Il disprezzo per i poveri” la filosofa spagnola Adela Cortina definisce a-poros colui senza poros, cioè senza scampo, senza via di uscita, colui che non possiede i mezzi per liberarsi da una situazione. Povero, cioè, è chi si sente in trappola. Ecco perché la dimensione economica non basta a spiegare il senso di frustrazione che sperimentano oggi moltissime persone e che ci fa sentire tutti più “poveri”.
A pesare, infatti, c’è anche la “mancanza di senso” che nasce dal vivere in un mondo dove ogni certezza viene minata dalle fondamenta: a causa dell’ipertrofia finanziaria, certo, che continua ad alimentare le disparità, per la crisi climatica e, ancora – e forse oggi soprattutto -, a causa delle guerre che, dopo ottant’anni di pace, sono tornate a bussare alle porte d’Europa. Per questo ci sentiamo tutti più soli. E quindi più infelici. Destino ineluttabile?
Qui entra in gioco il paradigma dell’Economia civile. Il reddito e una buona organizzazione sociale, dato di partenza, sono fattori determinanti per godere di una buona qualità della vita. Ma non bastano, da soli, a dare un senso di appagamento alla propria esistenza. Che cresce invece quanto più la vita del singolo diventa ricca di relazioni, di partecipazione, di generatività.
La conferma arriva anche dall’ultimo Rapporto sul Ben-Vivere realizzato da Avvenire insieme a Next Nuova Economia: se nella classifica generale (in cui ci sono dentro i redditi, la ricchezza, i servizi, l’offerta culturale, l’istruzione, il tasso di criminalità, indicatori non solo economici, quindi, ma anche sociali e ambientali) i primi dieci posti vanno comunque a territori del centro-nord, l’approfondimento specifico sulla soddisfazione di vita dei cittadini mostra una graduatoria ben diversa. In questa classifica si tiene conto del livello di soddisfazione per unità di Pil, diciamo brutalmente. Ebbene: nella “top ten della felicità” ci sono anche due provincie del Sud “povero”, dove cioè ricchezza e reddito risultano decisamente più bassi. Mentre non c’è nessuna grande città.
Non solo: in diversi casi, alcune delle province al vertice nazionale del Ben-vivere si trovano agli ultimi posti quanto a gratificazione della vita.
La ricerca dà quindi un nuovo riscontro a un paradosso già conosciuto nella letteratura economica e sociale: quella dello scarto, apparentemente poco comprensibile, tra qualità e soddisfazione di vita; in ultima analisi, tra il benessere materiale testimoniato da indicatori oggettivi e l’appagamento personale dichiarato dalle persone. Il paradosso di Easterlin è vivo e vegeto, cioè, considerando lo studioso americano che fu uno dei primi a mettere in evidenza tale “scarto”, facendo osservare che la crescita del Pil pro capite negli Stati Uniti nel Secondo dopoguerra era accompagnata, dopo la fine degli anni ’50, non da un aumento, ma da un declino della quota degli americani che si dichiarava molto felice.
Ma quali possono essere i motivi di questo paradosso? Si tratta solo di una questione di percezione della realtà o ci sono fattori più concreti? L’ipotesi di ricerca è che nella soddisfazione di vita abbiano un peso importante anche le relazioni interpersonali e la generatività. E cioè il ruolo che giocano le comunità le reti solidaristiche e il dono. I ricercatori hanno messo a confronto diverse variabili della vita di relazione (ad esempio, l’incontro con amici una volta ogni tanto, oppure tutti i giorni) e di reddito. E le indagini, condotte sulla base di due diversi database econometrici, hanno evidenziato come il passaggio tra il livello più basso e quello più alto di qualità della vita di relazioni abbia un impatto tre volte maggiore sulla soddisfazione di vita rispetto al passaggio dal più basso al più alto livello di reddito. Dagli studi sulla felicità emerge insomma e in modo sempre più chiaro ed evidente che gli esseri umani amano sì “avere” (hanno bisogno di risorse che garantiscono stabilità), ma anche (e molto) “dare”. Ebbene: la componente principale della felicità si chiama generatività, intesa come impatto positivo della nostra vita e delle nostre azioni sui nostri simili e sulla sostenibilità ambientale, e dunque sulla sostenibilità del nostro benessere, di quello dei nostri figli e di chi verrà dopo di noi.
I territori rinascono e fioriscono quando i loro abitanti non si chiedono solo quante risorse possono ottenere dalle amministrazioni, ma si domandano che cosa possono fare individualmente e in forma organizzata per contribuire al benessere del proprio Paese.
Parliamo di qualcosa che già esiste. Buone pratiche e comunità d’innovazione sociale hanno fatto crescere la cooperazione di ogni genere e tipo: il mondo della finanza etica e del commercio solidale, i processi di amministrazione condivisa e di co-progettazione, le comunità educanti e le esperienze di giustizia riparativa, solo per fare alcuni esempi.
“La felicità non si acquista calpestando il diritto e la dignità degli altri”, ha scritto Francesco nel suo Messaggio per questa VIII Giornata mondiale dei Poveri: la felicità si conquista generando inclusione.

Marco Girardo, direttore Avvenire

(Foto Siciliani-Gennari/SIR)

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