“Agli incroci delle strade…”

A pochi giorni dalla conclusione del Convegno nazionale delle Caritas diocesane, intervista al diacono Renato Nucera, direttore della Caritas di Gorizia, per un bilancio post-convegno e sui più recenti impegni diocesani

Un periodo di grande fermento quello che ha recentemente coinvolto la Caritas diocesana di Gorizia. Impegnata su più fronti nel corso dell’inverno per quella che viene definita “Emergenza freddo”, nell’accoglienza ai cittadini ucraini in fuga dal conflitto, nel supporto alla cittadinanza locale con i servizi delle Opere Segno e, un paio di settimane fa, ospite al Convegno nazionale delle Caritas diocesane che si è svolto a Salerno e al quale ha attivamente partecipato nei tavoli di lavoro.
Alla luce di tutti questi avvenimenti, abbiamo incontrato il direttore, diacono Renato Nucera, e abbiamo colto l’occasione per fare il “punto” della situazione.

Direttore, da poco lei e parte dell’équipe siete rientrati dall’esperienza vissuta al Convegno nazionale, che ha avuto per tema “Agli incroci delle strade”. Cosa porta a casa da “coltivare” in seguito a questo momento?
Al Convegno di Salerno si è parlato molto delle “periferie”, una cosa sulla quale ho avuto modo di riflettere in diversi momenti: contrariamente a quanto si potrebbe pensare infatti, ci possono essere anche periferie ricche e centri città molto poveri.
Tra i vari aspetti poi, la cosa che mi ha fatto maggiormente riflettere è la tendenza, che abbiamo tutti, a fare riferimento sempre a luoghi fisici, a delle situazioni urbane per le quali identifichiamo la periferia come un “luogo”.
Il Convegno mi ha fatto riflettere proprio su come in verità in ognuno di noi c’è una qualche “periferia” e le periferie cui si riferisce papa Francesco non sono esclusivamente urbane ma sono periferie personali: quelle del cuore quando non sa più battere di emozione per l’altro, le periferie della malattia, le periferie della solitudine, le periferie dell’abbandono, la periferia dei giovani che non trovano speranza per il futuro, la periferia degli immigrati, di coloro che lasciano la propria terra e la propria casa per cercare un futuro migliore…
Le periferie “fisiche” sono fatte di intersecazioni di strade, di incroci appunto, dove in genere c’è sempre movimento di gente e situazioni.
Lo stesso accade alle periferie “umane”, con degli incroci dove io posso incontrare le persone, dove posso io stesso diventare luogo in cui si creano relazioni, con la possibilità di iniziare un cammino insieme.
È questo quello che mi porto dentro dall’esperienza di Salerno.

Calandoci nel locale, cosa significa per la Caritas diocesana di Gorizia essere “agli incroci delle strade”?
Significa porsi nella condizione di accorgersi di quante persone vivano la necessità di “attraversare un incrocio” nella propria vita. Proprio come si attraversa un confine, come si attraversa una solitudine, come si attraversa una difficoltà lavorativa… È importante mettersi in ascolto di queste realtà e di queste situazioni.
Ho sempre sostenuto e sosterrò il concetto che ascoltare vuol dire amare, quindi per ascoltare – non solo sentire – è necessario porsi in un modo e con uno spirito evangelicamente attento.
Gorizia si pone un po’ come la “Galilea delle genti” citata dal profeta Isaia dove le persone, qualsiasi esse siano, non devono essere considerate come un problema o una difficoltà ma come una risorsa.
Da sempre lo sviluppo dei popoli è avvenuto nei luoghi e nelle città dove c’è stato più movimento, più scambio, più intersecazione di persone, di idee e di culture.

Poco fa parlava del “mettersi in ascolto” e non solo “sentire”. Non è sempre semplice. Dove ritiene ci sia maggiore difficoltà e come è possibile quindi ascoltare chi magari non ha nemmeno voce?
Una delle difficoltà che incontriamo quando ci poniamo nell’ascolto è quella di riuscire a non giudicare. Il giudizio infatti crea muri e barriere.
Come uomini siamo in genere degli esseri giudicanti di per sé, per natura, ma superare questo sentimento, questo pregiudizio, è importante per non diventare sentenziosi, ponendosi e ponendo limiti ma mettendosi invece in una condizione di libertà nell’ascolto.
Non dico sia facile, assolutamente, non lo è ma è una “lotta” che va vinta.

Ripensando per un momento ancora al tema degli “incroci”, viene subito da pensare anche al nostro territorio di confine, sul quale da sempre appunto si “incrociano” vite, tradizioni, culture, collaborazioni, come fa appunto anche da Caritas diocesana con le realtà parallele “vicine di casa” in Slovenia…
Credo che per rapportarsi con le persone, indipendentemente dalla lingua, dalla condizione sociale, dalla provenienza… bisogna ripercorrere il linguaggio della Pentecoste, che è il linguaggio dell’amore.
Anche i rapporti che nel tempo abbiamo intessuto con le Caritas e le realtà umanitarie oltreconfine non sono una questione istituzionale, formale, ma partono dal presupposto che ognuno di noi ha qualcosa da dare sotto questo punto di vista, ha amore da dare, che poi si traduce in un apporto che può essere di vario tipo.
Quando mi pongo nei confronti dell’altro non mi pongo nella condizione di dire “loro” e “noi” ma soltanto “noi”, facenti parte del genere umano; possiamo volerci bene e cercare delle strade comuni che ci portino a operare nel bene nei confronti di chiunque, che viene quindi svolto comunemente – ognuno con la propria identità, la propria prerogativa e la propria sensibilità ma insieme, con un linguaggio che non fa necessariamente dei distinguo, che rispetta sempre l’altro e che ha il suo fondamento nel voler bene all’altro -.
Non si tratta quindi di rapporti “di rappresentanza” ma guidati da sentimenti comuni.
Al Convegno nazionale, all’interno dei tavoli di lavoro, ho potuto esprimere un concetto quando mi è stato chiesto “come poter cambiare le cose?”: confrontandomi con la Parola, facendo un percorso introspettivo, io posso specchiarmi nell’altro.
Devo sempre cercare di “guardarmi” nell’altro, senza paura e senza pensare che questi sia totalmente diverso da me.
A tal proposito, una delle cose cui qui noi non siamo forse “abituati” è proprio la povertà, che in altre città o zone d’Italia è certamente più presente.
Tuttavia la ritroviamo nel momento in cui ci confrontiamo con lo straniero che chiede di essere accolto: questa è una situazione che chiede di metterti in discussione e di rivederti continuamente rispetto a quello che è il tuo vivere “normale”.
Nel nostro caso si tratta di una situazione di benessere, che viene messa in discussione: confrontarsi con la povertà mette sempre in difficoltà.

A tal proposito si è da poco conclusa l’accoglienza, a Gradisca d’Isonzo e a Gorizia, relativa all’”Emergenza Freddo”. Quale bilancio da quest’esperienza?
Partirei fornendo alcuni numeri.
Presso il dormitorio allestito – in accordo con parrocchia, Prefettura e Comune di Gradisca – negli spazi dell’oratorio di San Valeriano per rispondere alla necessità di accoglienza notturna in mancanza di posti sufficienti presso il locale Centro di Accoglienza, dal 10 novembre al 30 marzo, con 141 giorni di accoglienza, sono stati offerti 2.435 pernottamenti totali, con una media di 17 ospiti per notte.
Le persone accolte sono state prevalentemente di nazionalità pakistana ma alcuni erano indiani, bengalesi e afghani.
Anche a Gorizia, presso gli spazi di Casa San Francesco, in accordo con la Prefettura e sempre per rispondere ad un’esigenza di ospitalità notturna, dal 16 novembre al 15 aprile sono stati offerti 3.863 pernottamenti, con una media di 26 ospiti a notte.
Si trattava in prevalenza di cittadini egiziani, ma sono stati accolti anche pakistani, marocchini, algerini, indiani e nepalesi.
Tutto questo è stato compiuto perché la stagione invernale, lo sappiamo, presenta delle obiettive difficoltà nel permanere all’aperto, soprattutto durante la notte quando le temperature possono diventare molto rigide. Di conseguenza ci siamo premurati per creare dei luoghi dove queste persone potessero essere accolte, anche considerando che il dormitorio goriziano di piazza Tommaseo in questo momento non è disponibile perché occupato da famiglie ucraine accolte nell’emergenza dovuta al conflitto. Caritas diocesana si è quindi impegnata su più fronti in questo senso, per cercare di dare risposte.
Sia a San Valeriano che a Casa San Francesco fondamentale è stato l’aiuto prestato da numerosissimi volontari, che oltre ad essere presenti per aiutare gli ospiti in caso di necessità, si sono anche prestati per la sistemazione delle stanze, le pulizie, la preparazione di un pasto o della colazione…
Il coinvolgimento e la risposta di entrambe le comunità sono stati davvero altissimi e cogliamo ancora una volta l’occasione per ringraziarle: sono state davvero sensibili a queste situazioni. Ma devo dire che si è registrata una grande sensibilità anche da parte di tutta la popolazione locale: alla chiusura dei due servizi in molti si sono chiesti “e ora?”; questo dimostra una sensibilità, una vicinanza e un sostegno a quelli che sono proprio i valori che, come Caritas, desideriamo trasmettere: attenzione e ascolto che nasce proprio dalle comunità.
Per rispondere a quel “e ora?” posso dire che la Caritas diocesana si è preoccupata dell’emergenza e ha fatto ciò che era nelle proprie possibilità, anche legali e amministrative.
Allestire un luogo di accoglienza presuppone tutta una serie di responsabilità che coinvolgono strutture, costi di manutenzione, gestione delle utenze e risorse umane…
Per quanto riguarda le accoglienze è quindi chiaro che vanno tenuti in considerazione tutti i problemi, tutte le sensibilità e tutte le responsabilità oggettive che ci sono anche da parte delle Istituzioni.

Perché si è giunti, almeno per il momento, ad un termine in quest’accoglienza?
Chiudere l’accoglienza non è stato un disinteresse o un “rinnegarla”, quanto piuttosto un rammentare che ci sono delle responsabilità che spettano a livello istituzionale riguardo alle persone che si trovano in transito sul territorio.
Caritas certo può intervenire a supporto di necessità locali caratterizzate appunto da una situazione di emergenza, ma c’è bisogno ora di sensibilizzazione – tanto nell’opinione pubblica, che nelle Istituzioni – per trovare, insieme, soluzioni che non siano solo emergenziali ma che sarebbe bene iniziassero ad essere strutturali.
Vale a dire quindi accoglienza più strutturata, corsi di Lingua italiana, corsi formativi, orientamento al mondo del Lavoro, facilitazioni per il supporto legale…
Non si può proseguire continuando a considerare tutto questo come un’emergenza cui porre rimedio.

a cura di Selina Trevisan

(intervista pubblicata su Voce Isontina – Settimanale dell’Arcidiocesi di Gorizia, n. 19 del 13 maggio 2023)

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