La giornata internazionale del quarantaquattresimo Convegno Nazionale Caritas Italiana, ospitato in una Grado che, Isola del Sole, solamente nella tarda mattinata del 9 aprile ha visto un tenue sole affacciarsi sulle coste adriatiche, ha parlato di Europa. Un’Europa sviscerata in varie sfaccettature e sfumature a partire da monsignor Michael Landau, presidente di Caritas Europa.
Dal 2014 almeno 20mila persone sono morte nel Mar Mediterraneo e i numeri aumentano giorno dopo giorno, mentre nel mondo 108 milioni di persone sono costrette a lasciare le loro case a causa di guerre, persecuzioni, violenze, violazioni dei diritti umani. «La questione sta prendendo sempre meno spazio sui media a livello europeo, ma questo non può essere accettato e deve finire. L’Europa deve forse parlare di nuovo di una missione congiunta europea di ricerca e salvataggio nel Mediterraneo».
«Mentre tanti non hanno più nulla, intere generazioni devono vivere e crescere nelle condizioni più complicate, la comunità internazionale non ha ancora trovato il modo di riconoscere e attuare in modo completo e indispensabile la protezione dei rifugiati e non combatte le cause alla radice con la necessaria determinazione», ha detto il presidente di Caritas Europa, ricordando anche «la drammatica situazione in Terra Santa, che sta coinvolgendo l’intera regione e il mondo intero; la guerra di lunga durata in Ucraina; la situazione in Sudan, in Haiti», «le decine di altre guerre e crisi in corso sempre più spesso quasi dimenticate, la crisi climatica che produrrà milioni di profughi ambientali».
«L’inadeguatezza del sistema politico a rispondere a queste sfide è diventata particolarmente drammatica. In fin dei conti, deve essere possibile fare entrambe le cose, proteggere le persone e proteggere i confini. Inoltre, non possiamo ridurre la questione migratoria al Mar Mediterraneo, ovviamente. I confini europei sono lunghi e diversi»
Parlando ai 600 delegati da 218 Caritas diocesane monsignor Landau – che rappresenta una rete di 49 organizzazioni in 46 Paesi europei che interloquiscono con i responsabili politici nazionali ed europei in difesa dei poveri e vulnerabili – ha descritto una situazione mondiale attraversata da intensi cambiamenti: «La guerra dietro l’angolo, le conseguenze della pandemia, la crisi del costo della vita, la crisi climatica, i cambiamenti demografici, la rapida digitalizzazione e l’uso dell’intelligenza artificiale nella nostra società, il cambiamento del contesto geopolitico… Tutto questo prima di importanti elezioni in Europa e forse ancor più negli Stati Uniti. Una situazione non facile».
Eppure «sono convinto che non dobbiamo rassegnarci alle difficoltà che ancora esistono. E come parte della Chiesa, in particolare, abbiamo il mandato di contribuire a costruire una società più giusta, in cui tutti abbiano opportunità eque, laddove possibile». «Radicati nella Dottrina Sociale della Chiesa, crediamo che le persone e l’ambiente, non il profitto, debbano essere al centro di tutte le politiche, lottando per un mondo in cui nessuno sia escluso e in cui tutti possano prosperare e partecipare in modo significativo alla società», così Landau.
Nella tavola rotonda che ne è seguita, moderata dalla vicedirettrice Silvia Sinibaldi, sono intervenuti mons. Alojzij Cvikl, presidente di Caritas Slovenia, Stella Foskolou, presidente di Caritas Hellas, Natalia Perio, segretaria generale di Caritas Spagna ed Ettore Fusaro dell’Ufficio Europa di Caritas Italiana.
Una situazione, quella in Slovenia, dove la forbice sociale è in apertura. Lo conferma lo stesso Cvikl secondo cui «c’è sempre più povertà e la classe media sta scomparendo. I salari sono bassi, così come le pensioni, e gli anziani non sono in grado di arrivare a fine mese». Cvikl conferma la necessità di «far vivere una vita degna alle persone. E dalla povertà conseguono anche problemi morali con le famiglie nelle quali i genitori disoccupati vanno in crisi nel portare avanti una famiglia. I giovani sono un tema ancor più delicato, con tanti che emigrano verso altri Paesi europei». L’esempio del presule arriva dalla sua diocesi di Maribor nella quale «in tanti vanno a lavorare nella vicina Austria ma spesso i nonni non sono in grado di gestire i bambini».
Le soluzioni di Caritas Slovenia sono varie: «Per alcuni forniamo alcune giornate nelle quali possono lavorare per noi mentre chi viene aiutato ci ricambia con ore di servizio alla comunità. Chiaramente è un modo per avvicinare le persone al mondo del lavoro ma cerchiamo anche di creare delle reti organizzando incontri e un pranzo annuale, a Maribor, per chi viene aiutato. Così raduniamo oltre trecento persone attorno a un tavolo. La rete è fondamentale».
Per Cvikl è fondamentale la collaborazione tra realtà statali. «Con l’Ungheria c’è un buon rapporto, con la Croazia anche tanto che il presidente di Caritas Croazia è il mio vicino, il vescovo di Sisak, Vlado Košić, con il quale c’è un ottima intesa. Con l’Austria, invece, abbiamo firmato alcune convenzioni: loro hanno i progetti, noi il volontariato». Sul tema del fronte italo-sloveno, invece, c’è da riprendere «il progetto Alpe Adria tra Slovenia e le diocesi di Gorizia, Udine e Trieste».
Sui migranti, infine, la situazione è di passaggio, soprattutto per la rotta Balcanica: «Ci siamo attivati – conclude Cvikl – per l’arrivo dei profughi dall’Ucraina e ora molti vivono e si sono adattati nelle nostre famiglie. Noi abbiamo fornito alcune stanze per l’incontro e la preghiera ma anche servizi psicologici per i bambini affinché si possano adattare all’ambiente e alla scuola».
Tra i relatori anche Stella Foskolou, presidente di Caritas Hellas. La Grecia, «è un paese che sa cosa significa l’arrivo nelle sue coste di persone che cercano di fuggire non solo dalla povertà e dall’oppressione, ma anche dalla guerra», così Foskolou. «La crisi dei profughi dopo la guerra in Siria e la recente intensità dei flussi migratori sono direttamente collegate alla povertà della periferia europea dei conflitti, della guerra e del cambiamento climatico. La guerra in Ucraina, la devastazione a Gaza e Palestina, la crisi nel Sudan, la crisi alimentare nei paesi africani, i conflitti e il crollo dei regimi precari post coloniali hanno costretto per una volta ancora, migliaia di persone allo spostamento e allo sradicamento. Nell’era contemporanea sembra che l’Europa chiuda gli occhi ai segni dei tempi e che creda di poter ignorare le migrazioni di massa che derivano dal bisogno dell’altro di vivere in libertà, rispetto, dignità e sicurezza. Nei nostri Stati contemporanei e democratici, proclamiamo con fierezza i nostri valori in tutto il mondo, nella prassi, però, sempre più dimostriamo che questi valori e principi non sono validi per tutti. L’ascesa dell’estrema destra in Europa e la diffusa idea che l’immigrazione sia una minaccia rende difficile la ricerca di comuni iniziative e distante la realizzazione di adeguate strategie. L’assunzione di posti di leadership nell’area politica da politici reattivi e antisistemici, i quali, in periodi di crisi economica e spirituale, coltivano odio e introversione, conducono ancora una volta nella storia l’una persona contro l’altra. Invece di parlare di diritti umani, del diritto di asilo, della protezione della vita, della dignità, parliamo di più e soprattutto di protezione da invasione, di immigrazione illegale e di violazione dei confini. Le accuse e le testimonianze per dei violenti respingimenti di persone ai confini, il naufragio tragico appello a sud del Peloponneso, dove più di 600 persone persero la vita sotto gli occhi dell’umanità dimostrano un’Europa che chiude gli occhi alla giustizia e al trattato internazionale per la prestazione di protezione ai profughi».
«Delimitiamo i nostri confini, costruiamo muri, facciamo pattuglie, mandiamo indietro persone, parliamo di difesa dei confini nazionali nello stesso tempo nel quale per noi stessi pretendiamo liberi spostamenti e residenza, ignorando la disgrazia che esiste accanto a noi e per la quale abbiamo una comune responsabilità. L’Europa finanzia la costruzione di centri chiusi di detenzione invece di investire nella convivenza regolare e pacifica e nella costruzione di un sistema dignitoso e giusto di assegnazione di responsabilità e di contraccambio. La Grecia si allinea con le politiche europee dei confini chiusi. Sono state fatte delle denunce per avere respinto dei profughi immigrati al confine. Nel nord della Grecia, come pure dei tentativi di rimandare indietro dei galleggianti che venivano dalla Turchia. La Grecia per i richiedenti asilo continua ad essere nel Mediterraneo una delle vie di uscita più basilari. Nel 2015 tutti noi abbiamo visto più di 850mila profughi passare dalla Grecia per raggiungere il resto dei paesi europei. Nel 2016 i paesi europei, l’uno dopo l’altro chiudono i loro confini lasciando i paesi del Mediterraneo Italia, Grecia, Spagna, Malta e Cipro completamente soli ad affrontare una situazione tanto grave e particolarmente impegnativa», ha ribadito la presidente di Caritas Hellas che ha notato, in questi primi mesi del 2024, «un graduale aumento dall’inizio dell’anno fino alla fine di marzo sono arrivati 10mila profughi. La maggior parte provenienti dalla Siria, Afghanistan, Somalia ed Eritrea. Un numero considerevole arriva a Creta aprendo una nuova via, oltre a quelle già esistenti della Turchia, dell’Egitto e della Libia».
«Non dimentichiamo che in tutto il mondo più di 108 milioni di persone sono state sfollate dai loro focolai a causa della violenza, delle espulsioni, dei conflitti e delle trasgressioni dei diritti umani. Non pensiamo che l’Europa sia in grado di accogliere subito i milioni di persone che rimangono intrappolati nella sua periferia. Di certo però occorre siano date delle soluzioni comuni per la loro accoglienza, con un sistema di concezione di asilo giusto ed equo per tutti, con l’assunzione della responsabilità condivisa e della partizione del dovere della loro protezione. L’Europa deve e può investire nella pace, nello sviluppo e nella coesione sociale nei paesi della periferia che crollano economicamente e istituzionalmente», ha concluso Foskolou.
Natalia Perio, segretaria generale di Caritas Spagna, ha ribadito come «in questo momento in Spagna abbiamo 100mila persone in situazione di irregolarità. E questo porta alle persone a vivere situazioni di assenza di diritti e di paura e di assenza di futuro e ai nostri operatori. Vivere questo significa anche vivere un senso di frustrazione nel non poter aiutarle», così Peiro che ha ribadito anche la «barriera visibile, che ha a che vedere con la difficoltà che hanno tante persone ad accedere all’abitazione e questo impedisce loro di pensare a un futuro, di costruire una famiglia e noi ci stiamo impegnando molto su questo ambito qui, non solo con risorse economiche, ma anche attraverso l’assistenza e un approccio pedagogico. E che aiuti le persone a capire come accedere al meglio. C’è una difficoltà, ad esempio dal punto di vista dei costi della vita e quindi una situazione che impedisce l’accesso al all’abitazione e ad una abitazione in condizioni degne», sono le parole della segretaria.
La terza frontiera «ha a che vedere con l’occupazione precaria. Un tipo di occupazione che impedisce l’integrazione sociale ed economica. In questo momento in Spagna la metà delle persone che aiutiamo sono persone occupate, quindi lavoratori che vivono in situazioni di precarietà lavorativa». La frontiera più grande, secondo Peiro, però, è quella «dell’individualità. È come riuscire a fare un passaggio dalla cultura dello scarto a un altro tipo di cultura centrata su sulle persone e come lavorare nelle nostre comunità, per cercare di avere un cuore che ci aiuti anche a capire questo tipo di problematiche?».
Per quanto riguarda le elezioni europee «ci sono alcuni aspetti che sono importanti, ad esempio garantire un degli ingressi un minimo che sia indispensabile per la vita dignitosa, lavorare anche sul tema della povertà infantile. Un altro elemento ha a che vedere con l’aumento della cooperazione allo sviluppo, alla cooperazione internazionale, ma anche a costruire strade e modalità sicure per permettere alle persone di migrare in condizioni sicure», conclude Peiro.
Sul tema della Rotta Balcanica si è soffermato Fusaro, che segue l’Ufficio Europa di Caritas Italiana, che rileva anche le 47 Caritas nazionali e promuove e partecipa a programmi, iniziative trasversali, dalle migrazioni all’inclusione lavorativa raggiungendo la rete di Caritas italiane nelle diocesi. Fusaro, nel raccontare il lavoro sui confini, ha ribadito come «oltre alla rotta balcanica, che vede la collaborazione con le altre Caritas nazionali di tutta la rotta, c’è il tema dell’economia sociale, il tema della salute mentale e della disabilità, e della destituzionalizzazione, coordinando con le Caritas diocesane che hanno fatto, in questa regione, un gran lavoro con i Balcani ma anche in tutta l’Est Europa che ci vede impegnati con l’emergenza in Ucraina, quindi porre un’attenzione sull’area ma anche in Moldavia, nel Caucaso e nella Romania che vivono un’enorme emergenza in Europa. Una situazione che non va risolvendosi», così Fusaro.
«È difficile vedere nel breve periodo un risultato ma posso dire che, per quanto riguarda le Caritas Nazionali dei Balcani, ora possiamo parlare di progettazione alla pari sapendo leggere la società civile in maniera importante. Ora queste organizzazioni posso essere player sociali nel loro territorio pur essendo Chiese di minoranza come in Serbia o in Kosovo dove, comunque, la presenza è apprezzata. Ciò – così ancora Fusaro – in un percorso che ha richiesto del tempo ma che dà un contributo importante perché a loro volta le Caritas riescono a contribuire alle dinamiche e ai processi di Caritas Europa. Da un bisogno prettamente materiale ora c’è una strutturazione diversa», ha concluso Fusaro.
di Ivan Bianchi, articolo pubblicato su Voce Isontina
Foto: Caritas Italiana